Appartenenze ed esclusioni

Dinamiche sulla cittadinanza nella Terraferma veneta tra XVeXVI secolo
[Membership and Exclusions. Dynamics of Citizenship in the Venetian Dominion of Terraferma Between the 15th and 16th Centuries]

Federica Paletti Università degli Studi di Brescia, Italy federica.paletti@unibs.it

I. Introduzione

Civitas est hominum multitudo societatis vinculo adunata.1

La civitas, scriveva Isidoro di Siviglia nelle Etymologiae, è fatta da coloro che la abitano, e non dalle pietre delle sue case e delle sue mura, diversamente sarebbe più corretto chiamarla urbs.2

La definizione isidoriana ha una forza indubitabilmente suggestiva là dove privilegia l’idea di città, quale luogo simbolico, espressione di una forte identità collettiva.3 In particolare, dando rilievo al contributo che i singoli abitanti svolgono nella costruzione di una dimensione cittadina comunitaria, chiama in gioco il complesso concetto di cittadinanza che, come ampi studi hanno dimostrato, si è manifestata in varie forme, tanto che all'età moderna non si sono trasmessi un unico modello o un’unica idea di cittadinanza.4

È il caso di precisare, sin da queste prime battute, che nel proseguo il termine »cittadinanza« è impiegato per indicare il legame che si crea tra l’individuo e la comunità in cui si trova a gravitare,5 così da includere non solo rapporti statici, atti a privilegiare il momento identitario e di appartenenza, ma altresì quelli dinamici, esplicitantisi in forme di partecipazione.

Si può riscontrare quale cifra comune ad esperienze giuridiche, maturate in contesti geografici, politici e culturali diversi fra loro, che il godimento di libertà, privilegi, immunità, secondo graduazioni disposte dalle istituzioni urbane, nonché la partecipazione alla vita della città venivano accordati a coloro che erano qualificati cives. Per contro, coloro che non vantavano o perdevano quegli elementi formali atti a connotarli quale cittadini, o, ancora, versavano in condizioni che, di fatto, li ponevano ai margini, non solo non godevano di adeguate protezioni giuridiche ma, in taluni casi, erano banditi, perseguiti, condannati.6

In tale direzione, può rappresentare un interessante campo d’indagine la peculiare situazione politico-istituzionale della Serenissima Repubblica di Venezia a cavaliere tra Quattrocento e Cinquecento, con particolare riferimento ai territori e alle comunità dell’entroterra.

Muovendo dall’esame di fonti custodite negli archivi, quali patti, statuti, ducali e provvisioni, emergono dinamiche di inclusione ed esclusione, praticate nelle città della Terraferma, che consentono di apprezzare le diverse connotazioni e sfumature che assunse la »cittadinanza« nelle terre venete, precisando sin d’ora che esulano dall’esame gli spazi, anche in senso giuridico intesi, del territorio extra-lagunare definito come Stato da Mar.

In particolare, all’incirca dalla metà del XVI secolo, in anni cruciali per la formazione degli stati moderni nel contesto geografico europeo,7 si registrarono forme sempre più penetranti di iurisdictio,8 esercitate da Venezia, divenuta ormai Serenissima Signoria, verso il suo dominio nell’entroterra.

L’organizzazione di pratiche di governo sempre più disciplinate e coagulate verso il potere centrale |si tradussero non solo in forme di controllo amministrativo da parte di Venezia in tutta la Terraferma, ma, altresì, in un progressivo »occuparsi e preoccuparsi« di quei soggetti che potremmo definire »l’altra faccia della cittadinanza«,9 nel tentativo enfatico ed insistente di perseguire la quiete e la pace del Dominio.

Ed è rintracciando le sorti di tali individui nelle carte d’archivio e le reti di obblighi, divieti, esclusioni che vennero approntate nei loro confronti, che si cercherà di proporre, nelle note che seguono, alcune considerazioni in ordine ai confini, necessariamente mobili,10 che la cittadinanza ricevette nelle terre soggette alla dominazione veneziana.

II. Appartenenze. La cittadinanza nella Repubblica di Venezia

Per comprendere le declinazioni spazio-temporali che, nei lunghi secoli di vita della Repubblica di Venezia,11 incontrò la cittadinanza – sebbene, stante la pluralità di forme riscontrate, ben si potrebbe ricorrere al concetto di cittadinanze – è opportuno ricordare che, durante il Quattrocento, secolo connotato dall’espansione del Dominio sulla Terraferma,12 Venezia regolò i rapporti con le Città, che andava via via assoggettando, mediante i cosiddetti patti di dedizione.

Per la Serenissima tali patti rappresentavano strumenti giuridico-istituzionali che, unitamente alla mediazione dei Rettori, valevano per impostare, affermare e regolare il dominio sulle città della Terraferma, come ben hanno messo in evidenza gli studi di Gian Maria Varanini e Aldo Mazzacane.13 Le concessioni pattizie registravano contenuti variabili in funzione del contesto territoriale e delle suppliche e petizioni che il patriziato locale manifestava. L’atteggiamento tutorio e paternalistico, ma parimenti di controllo, che emerge dal tenore delle singole disposizioni pattizie dà la cifra della sovranità che Venezia sarebbe andata esercitando sulla Terraferma, sul crinale di un confronto sempre più acceso con le realtà territoriali, specie quelle al di là del Mincio,14 pronte ad inoltrare rivendiche e maggiori richieste di autonomia e a non cristallizzare i rapporti alle rubriche del pactum.

Lo schema seguito nelle varie dedizioni si ripeteva pressoché inalterato: la città dominata si assoggettava alla Signoria e questa, a fronte del giuramento di fedeltà, si obbligava a riconoscere i diritti quesiti, a mantenere gli assetti istituzionali preesistenti, le consuetudini e i privilegi sussistenti al momento della resa, a riconoscere le norme statutarie, sebbene ne sorvegliasse, con una certa duttilità, le richieste di revisione.15 Sull’assetto istituzionale preesistente della dominata si andava in tal modo sovrapponendo il regime proprio della Serenissima che riservava alla propria nobiltà gli uffici maggiori e gli incarichi di carattere politico, oltre ad un controllo nella fase delle nomine delle cariche locali.

Il pactum deditionis era, dunque, nevralgico per l’impostazione dei futuri rapporti tra Venezia e le città dell’entroterra. Va precisato che il ricorso a forme negoziali tese sia ad instaurare forme di dominio diretto che a regolare pragmaticamente i rapporti economici-fiscali,16 non era una peculiarità ascrivibile solo a Venezia ma accomunava anche altre esperienze politico-istituzionali e giuridiche del contesto europeo, tese alla ricerca di un equilibrio endogeno, tra centro e periferie, ed esogeno, con altri poteri sovrani. Si pensi, per restare ai confini della Serenissima, al dominio sforzesco-visconteo, di cui ci ha offerto una ricostruzione Giorgio Chittolini.17

Venendo ai temi che si intendono in questa sede affrontare, è indubbio che il patto di dedizione costituiva la cornice giuridica entro il quale la cittadinanza, o le cittadinanze, ricevevano definizione. Cornice, tuttavia, non fissa dal momento che la dinamicità dei rapporti con le comunità locali portava spesso a nuove insistenti petizioni e correlativamente, ma non automaticamente, a nuove concessioni e privilegi, destinati ad incidere proprio sul perimetro della cittadinanza e della sovranità.|

Chi poteva reputarsi cittadino? chi poteva acquisire la cittadinanza? quali obblighi e privilegi erano accordati ai cittadini?

Venezia era solita accordare nel pactum deditionis la cittadinanza de intus tantum ai cives della città assoggettate.

Per comprendere la portata di detto riconoscimento, va precisato che i cittadini veneziani erano distinti in originari e acquisiti.18 I primi erano i nati in Venezia da padre veneziano e, dal 1569, si richiedeva vi abitassero da almeno tre generazioni; i secondi lo divenivano per grazia o per privilegio e in quest’ultima ipotesi, a loro volta, venivano distinti in cives de intus et extra e cives de intus tantum.

Il cittadino de intus tantum godeva di alcuni privilegi che gli consentivano di accedere ad alcuni ministeri minimi della città, all’esercizio di alcune arti principali e ad alcune riduzioni sul pagamento dei dazi e dei tributi; il cittadino de intus et de extra godeva, oltre che dei privilegi interni, altresì del potere di navigare con diritto di mercanteggiare nei luoghi e negli scali del Veneto commercio e di godere all’estero delle esenzioni e dei privilegi riconosciuti ai veneziani originari. L’accesso alla cittadinanza de intus o de extra era regolata da provvedimenti del Maggior Consiglio e, in seguito, dalla magistratura dei Provveditori de Comun.

È evidente che traducendosi l’acquisizione della cittadinanza in immediati privilegi tra cui quello della navigazione e del commercio, Venezia a più riprese intervenne, soprattutto nel corso dei secoli XIV e XV, con cospicua normativa a definire i requisiti per l’accesso alla cittadinanza de intus. Nel 1258, si richiedeva una pregressa residenza di dieci anni nella città di Venezia. Nel 1305 l’obbligo di residenza veniva innalzato a 15 anni per la cittadinanza de intus ed a 25 anni per quella de extra. Nel 1348, i Provveditori de Comun introdussero ulteriori facilitazioni per l’acquisizione della cittadinanza eliminando la tassa d’iscrizione alle Arti e abbassando il periodo di residenza precedente alla concessione. Ulteriori provvedimenti, più o meno temporanei, che favorivano l’immigrazione di mercanti, artigiani e di imprenditori di una posizione sociale elevata furono adottati nel 1371, nel 1382 e nel 1407. Nel 1371 veniva stabilito che chi fosse arrivato con la propria famiglia ad abitare nella città sarebbe stato riconosciuto subito cittadino de intus, previa approvazione dei Provveditori de Comun. Nel 1382 l’obbligo di residenza veniva ulteriormente ridotto ad 8 e 15 anni rispettivamente per la cittadinanza de intus tantum e de intus et extra, mentre nel 1407 veniva offerto il privilegio della cittadinanza de intus immediatamente a coloro che avessero sposato una donna veneziana. Il privilegio della cittadinanza veneziana doveva essere rinnovato ogni cinque anni prestando giuramento alla Repubblica.

Il perimetro entro il quale venne a definirsi la cittadinanza nella Repubblica di Venezia era direttamente determinato dalla particolare articolazione delle fonti del diritto. Venezia, come già ricordato, all’atto della conquista non sovvertiva le fonti del diritto locale,19 in particolare non uniformava le leggi e gli statuti delle città assoggettate, ne accettava le diversità mossa dall’interesse di affermare la sua sovranità anziché le sue leggi.

Tale sistema, che è stato definito di »separatezza giuridica«, vedeva la compresenza e vigenza di due diversi diritti, che mantenevano la loro identità e rimanevano svincolati da rapporti di tipo gerarchico. Da un lato, il diritto veneziano o veneto, pragmatico e refrattario alla recezione del ius commune, sì che in caso di lacuna delle fonti veneziane si ricorreva alla consuetudine (usum) e, in sua mancanza, alla »conscienciam sine fraude«, che costituiva norma di chiusura di tutto l’ordinamento. Dall’altro lato, vi era il diritto di Terraferma, ricco di particolarismi, ma amalgamato dalla comune matrice romano-giustinianea.

Se i patti di dedizione dettavano le linee fondamentali per l’acquisizione ed il mantenimento dello status di cittadino in rapporto con Venezia, parimenti ogni città del Dominio manteneva in vigore il proprio diritto locale, i propri Statuta civitatis, dove regolava la condizione giuridica del |cittadino, originario di quel territorio, e con esso dei suoi beni. Gli Statuta avevano validità ed efficacia circoscritte entro i confini territoriali della città che li aveva emanati secondo le formule »Statuentes non possunt extra territorium statuere« (gli statuti non possono ordinare extra-territorio) e »statutum non ligat nisi subditos« (lo statuto non obbliga che i sudditi).20

Si prenda, ad esempio, una delle città del Dominio, Brescia. La rubrica 202 degli Statuta Civitatis prevedeva che lo stato di civis si acquisiva »si protestatus fuerit coram abbate, et ancianis comunis brixie, se velle stare et habitare continue, vel pro maiori parte anni, in civitate brixiae, cum familia sua, et approbatus fuerit per dictos abbatem et ancianos homo bonae conditionis«. Ai forenses, che si trovassero in terra bresciana »causa laborandi vel aliqua artem exercendi« e che godessero di buona opinione e fama, venivano garantite »immunitate reali et personali per decem annos continuos«, ma pur sempre era richiesto che esercitassero una qualche arte e avessero una buona reputazione.21

La non extraterritorialità dello statuto poneva problemi circa la condizione degli stranieri: a quali leggi dovevano rispondere? La scientia iuris, a partire da Bartolo da Sassoferrato in avanti, sosteneva che lo straniero seguiva per le condizioni personali (intese quali capacità d’agire, età legittima, interdizione) la legge del luogo ove era originario e per i beni posseduti la legge del luogo ove erano siti.22

Tali criteri incontravano eccezioni specie in ambito criminale dove la legge penale da applicarsi era la lex loci commissi delicti e non lo statuto del luogo di origine o di domicilio. Si riconosceva alla respublica o al princeps il potere di emanare norme valide sul territorio posto sotto la loro giurisdizione da applicarsi a tutti coloro che a diverso titolo vi dimoravano o transitavano, indipendentemente dalla loro condizione di stranieri o cittadini.

A partire dal Cinquecento, ed in particolare dopo la sconfitta di Agnadello, detta iurisdictio venne esercitata da Venezia con sempre maggiore intensità. La necessità di conservare l’auctoritas e la potestas, anche al cospetto dell’Europa, sulle terre difese, si tradusse, oltre che in un esercizio sempre più accentrato dell’amministrazione della giustizia e dell’imposizione e riscossione capillare di imposte, altresì in un maggiore controllo di coloro che dimoravano in quelle terre, il tutto declinato secondo la formula, quasi mitizzata, del ›buon governo‹.23

III. Esclusioni

È nella cornice giuridico-istituzionale, come sopra tratteggiata, che Venezia sollecitava ed imponeva alle Città, facenti parti del suo Dominio da Terra, l’adozione di un’imponente legislazione per arginare la pericolosità di quei soggetti, reputati »perturbatori della quiete e del pacifico vivere« dell’intero Dominio.

Il Consiglio dei Dieci, organo di polizia e tribunale criminale che poteva ingerirsi in qualsiasi materia che riguardasse la quiete e sicurezza dello Stato e la libertà dei sudditi,24 ordinava di controllare, espellere e reprimere, con pene variabili, tutti coloro che mettevano a repentaglio l’incolumità della vita e dei beni dei sudditi che abitavano quelle terre nonché »il quieto e pacifico vivere« del Dominio.

Nelle ducali e nei decreti che Venezia inviava alla Terraferma e le cui disposizioni andavano inevitabilmente ad intrecciarsi, se non a sovrapporsi, con lo ius proprium già in vigore nelle singole civitates, pare di cogliere un processo di progressivo e pragmatico accentramento della sovranità, tale da far venire meno quella »separatezza giuridica« che aveva caratterizzato, sin dagli anni lontani del patto di dedizione, i rapporti tra le città dominate e la Dominante.

Si moltiplicavano non solo gli interventi normativi, ma altresì gli atti di controllo amministrativo che vedevano nei Rettori i principali intermediari e cerniere di collegamento con Venezia, invitati ad intensificare il loro controllo ed azione.

Il »buon governo«,25 il cui perseguimento veniva alimentato e quasi mitizzato da Venezia con toni sovente di retorica paternalistica, specie dopo la sconfitta di Agnadello, non si limitava ad inter|essare il buon funzionamento della giustizia e la pace, ma altresì la sicurezza all’interno del Dominio.

Può venire qui nuovamente in soccorso l’esempio del distretto di Brescia, tra i più vasti ed economicamente produttivi di tutta la Terraferma, che veniva »interessato« da questa normazione ed invitato a rispettare le leggi del Dominio prima ancora di quelle espressione della sua potestas. I decreti del Consiglio dei Dieci, inviati con lettere ducali, venivano registrati nella Cancelleria Prefettizia della Città con ordine di procedere alla pubblicazione »ne’ loci soliti« e con ordine di farli osservare in ogni loro parte e per tutto il distretto soggetto alla giurisdizione del Rettore destinatario.

In detti provvedimenti ricorrevano, con incessante e sempre più intensa frequenza, disposizioni contro forestieri, mendicanti, vagabondi, zingari, banditi.

Vale dunque la pena soffermarsi brevemente su detti soggetti, sulla rete di obblighi e divieti di cui furono destinatari così da verificare quanto queste misure siano state atte ad incidere sul loro rapporto con le comunità locali e con lo Stato veneto e, in ultima istanza, sulla dimensione della cittadinanza nell’esperienza veneta.

1. Vagabondi

Se già glossatori e commentatori si erano interrogati sulla categoria del vagabondo giungendo a configurarlo come persona effettivamente priva di domicilio o di una residenza fissa e come tale »priva di giurisdizione«,26 anche successivamente la dottrina non smise di interrogarsi su tale figura, animata dal tentativo di dare una puntuale descrizione di quei soggetti, le cui condotte ed i cui comportamenti, equivoci e mutevoli, e come tali non facilmente inquadrabili, andavano ad intercettare l’area del giuridicamente rilevante, ed in ispecie, in una sorta di climax negativo, l’area del criminale.

Interessante la qualifica che ne dava Jacopo Menochio,27 nei suoi commentari De arbitrariis iudicum quaestionibus et causis.28 Egli scriveva che vagabondi, birboni, finti mendicanti o finti infermi e simili persone viziose ed odiose, erano odiati e riprovati dalle leggi tanto antiche che moderne, dovendo intendersi per vagabondi quelli che vanno vagando per il mondo e non hanno sede o abitazione fissa in alcun luogo, e tra essi dovevano includersi i banditi, da reputarsi vagabondi quando non eleggono domicilio in alcun luogo.

La condotta del vagabondo ricevette nella Repubblica di Venezia una progressiva criminalizzazione.29 L’errare per le terre del Dominio senza una professione o occupazione non era più condotta neutra e tollerata dalla Repubblica: degradata a criminale, essa veniva perseguita con vigorosi proclami e ducali, che andavano ad arricchire ed integrare, non sempre organicamente, il pluralistico sistema delle fonti delle città dominate. L’esigenza di controllare gli spostamenti, specie del tempo notturno,30 ritenuti forieri di pericoli, violenze e disordini rispondeva ad una politica preventiva e di mantenimento dell’ordine pubblico.

E così in una decisione del Consiglio dei Dieci del 1567 si ordinava a tutte le Città del Dominio di espellere »tutti gli homini vagabondi et ociosi, così terrieri come foresti che non cavano il loro vivere et vestir o da sue intrate o da qualsiasi essercitio et arte«. La pena per chi fosse stato trovato nei confini dello Stato, oltre il termine indicato, era la galea con i ferri ai piedi per tre anni continui e, in caso d’invalidità a vogare, la prigione per il medesimo periodo. Non bastando, nel 1574 il Consiglio ritornò a normare sui vagabondi precisando che tali dovessero essere considerati anche coloro »che servono per bravi accompagnando particolari con le armi«. Venivano puniti anche coloro che li ospitavano »in casa overo in Camera locanda overo altrove a loro spese et salario o senza«, con il bando di dieci anni dalla città o dal territorio del quale erano sudditi o, qualora fossero forestieri, banditi dal dominio per il medesimo periodo di tempo.

La costante dilatazione del termine »vagabondo« ed il continuo inasprimento delle pene erano, tuttavia, segni di una giustizia inefficace, condannata più a scrivere la legge che ad applicarla.|

2. Gli zingari

La categoria di soggetti contigua a quella dei vagabondi era quella degli zingari, o cingani, che il giurista veneto Marco Ferro nel suo Dizionario ebbe a definire »una sottocategoria dei vagabondi«.31

Degli zingari si sanzionava la vita errabonda e si lamentava che avessero la propensione a creare disordini nei luoghi in cui fissavano la loro dimora. Non mancavano sospetti poi intorno ad una loro intima propensione al crimine. I documenti d’archivio riportano frequenti provvedimenti che Venezia imponeva a tutte le terre del Dominio per la repressione e l’allontanamento »sfratto« degli zingari dal Territorio.32

Valgano su tutti, due provvedimenti, tra i tanti prodotti da Venezia, per dimostrare quanta viva fosse l’esigenza di interdire agli zingari l’accesso alla comunità e alla sua vita e, al contempo, rendere ostile ogni loro permanenza sul suolo veneto al punto da sottrarre loro ogni forma di tutela anche personale.

Nel dicembre del 1549, il Consiglio dei Pregadi ordinava a tutti i Rettori di Terraferma di non »non far più Patenti, né in Voce dar licentia ad alcun Cingano, Vagabondo di poter venire e stanziare nel Dominio« e, al medesimo tempo di »mandar fuori dalle Territori«, affidati alla loro reggenza, tutti i cingani e vagabondi entro dieci giorni dalla pubblicazione del proclama.

Di lì a qualche anno nel 1558, il Senato stabiliva l’immunità per chi avesse catturato o ucciso uno zingaro che vagava nelle terre del Dominio. L’impune occidi da misura straordinaria ed eccezionale diveniva in tal modo il mezzo privilegiato dall’ordinamento della Repubblica di Venezia per sopprimere coloro che, a causa del loro errare, si classificavano criminali.

3. I banditi

Un’altra categoria destinataria a più riprese di un sempre maggiore interesse da parte delle autorità veneziane era quella coagulata attorno al lemma »bandito«.

In ispecie dalla seconda metà del Cinquecento, l’imponente produzione normativa della Dominante estese e dilatò la portata giuridica del termine »bandito«,33 oltre i confini che, almeno sino alla prima metà del Cinquecento, gli statuti cittadini e la disciplina dello ius commune le avevano conferito.

Banniti o banditi erano coloro che venivano colpiti da un provvedimento di bando per non essere comparsi nel termine della citazione in giudizio o dell’inquisizione avanti al podestà o al suo giudice del maleficio. La contumacia, qualora non veniva sanata, aveva il valore di una confessione e l’imputato contumace veniva condannato. Il bando era quindi uno strumento di natura processuale che comportava la sospensione delle tutele giudiziarie sino a che il contumace non adempiva all’obbligazione.34

Fu solo dall’età moderna in avanti, come rilevato da Mario Sbriccoli, che la criminalistica iniziò ad elaborare il crimine di banditismo.35 I giuristi di diritto comune preferivano individuare ed isolare quei comportamenti, tipicamente riconducibili al modus operandi dei banditi e che costituivano autonome fattispecie (latrocinium, depraedatio, crassatio, etc). Per contro con l’affermarsi delle potenze territoriali e della loro sempre più estesa iurisdictio sul finire del Cinquecento il bandito divenne colui che, colpito da bando, era per ciò stesso criminale.

Rispetto ad altre esperienze giuridiche coeve, la legislazione veneziana seppe mantenere distinto lo strumento del bando dai crimini ulteriori che colui che era stato colpito da bando andava compiendo.36

E tuttavia, l’esame delle fonti restituisce l’immagine di cospicui e talvolta contraddittori interventi delle autorità veneziane, volti ad arginare la piaga dei banditi che commettevano nelle terre del dominio »delitti scellerati«.

La politica veneziana mirava a controllare capillarmente il territorio della Terraferma e progressivamente avocare a sé l’amministrazione della giustizia che riguardava i »banditi«.

Sistemi di impunità, graduati secondo la gravità del delitto, venivano concessi a coloro che catturavano un bandito, a cui si accompagnavano sotto |forma premiale taglie di diversa entità e la possibilità di depredare legittimamente il bandito di tutti i suoi beni. Quand’anche poi fosse intervenuta la liberazione dal bando, al bandito »liberato« erano interdetti la circolazione ed il transito nelle terre dalle quali era stato bandito, salvo intervenisse la pace di chi era stato offeso o, in via suppletiva, la decisione dei Rettori.37

4. Mendicanti

Merita, infine, un cenno il tema dei mendicanti. Le fonti normative che si occupano di tali soggetti sono prevalentemente locali: è lo ius proprium della città a dominare, mentre quello veneziano rimane ai margini.

Si trattava per lo più di norme atte a disciplinare forme di assistenza e soccorso a chi si trovava in condizioni economiche e sociali svantaggiate,38 ma altresì a distinguere i veri mendici dai falsi mendici, in forza di alcuni caratteri di contiguità che le autorità ravvisavano con i vagabondi.

La lettura delle fonti ci consegna prevalentemente due ordini di ragioni che inducevano le cariche cittadine tra cui anche i Rettori, diretta espressione e raccordo tra le autorità veneziane ed i Consigli locali, ad intervenire e ad istituire, da un lato, aiuti e, dall’altro, forme di controllo contro presunti abusi.

Il primo motivo congiungeva elementi di ordine strettamente spirituale, salus animarum, con quelli più laici di tutela della sanitas: ottenere la salvezza nel »giorno orrendo del giudizio« ma altresì la protezione della Città dai pericoli delle calamità e della peste. Il processo diventerà sempre più marcato nel corso del Cinquecento: poveri e mendicanti passeranno dalle cure della Chiesa, che in loro vedeva alteri Christi, alle cure della città o, per usare la felice espressione di Giorgio Cracco, passavano dalla »misericordia della Chiesa alla misericordia del principe«.39

Il secondo ordine di ragioni riguardava la necessità di riportare ordine e decoro alla città la cui quiete si riteneva essere stata »perturbata« dai poveri mendicanti. Coloro che fossero stati sorpresi a mendicare tra le mura della città, ma erano abili al lavoro, erano giudicati non meritevoli di alcun soccorso.40

Ed è nel ravvisare in loro potenziali »ministri di sceleragine« che le autorità veneziane giustificavano il loro intervento a fianco di quelle locali. L’adozione di provvedimenti che limitavano giorni e luoghi delle questue, l’avviamento degli abili al lavoro a mestieri utili per la cosa pubblica, la condanna a ricoveri coatti presso istituti creati appositamente dalle cariche cittadine, l’espulsione dalle mura della città con ordine di non farvi più ingresso rappresentavano le maglie di una rete di obblighi e divieti tese a confinare e punire chi della mendicità faceva un uso non tollerato, perché considerato destabilizzante della pacifica vita del Dominio.

Il disvalore verso condotte di vita reputate ignave e verso un impiego del corpo »non sano« perché orientato all’ozio e non al lavoro sarebbe diventato il filo rosso degli interventi normativi ed amministrativi della Repubblica contro i pauperes richiedenti l’elemosina, non graditi alle autorità e come tali degni di repressione ed espulsione.41

IV. Cenni conclusivi

Entro il quadro sopra prospettato, pare di poter svolgere in via conclusiva almeno due ordini di rilievi.

Un primo rilievo riguarda direttamente i protagonisti/destinatari degli interventi delle autorità veneziane e locali. Vagabondi, banditi, forestieri, zingari, mendicanti, ognuno con le proprie qualitates personali, non rispondevano ad un unico »tipo«, né godevano del medesimo »status« giuridico dal momento che i lemmi, impiegati dal legislatore veneziano, all’incontro con quelli del legislatore della città di Terraferma, erano polisemici, frutto ed espressione di dinamiche storico-sociali e‍‍‍ territoriali differenti. Condividevano, tuttavia, la medesima condizione di fondo: erano individui collocati »ai margini« della Repubblica, non integrati nei suoi spazi giuridici ed estranei – si pensi ai‍‍‍ banditi – alla rete di tutele e privilegi di cui godevano gli altri cittadini. La normazione, che sempre più copiosa andò ad interessare detti soggetti, era tale da racchiudere in sé elementi dall’impatto quasi »costitutivi« poiché andava introducendo, indirizzando e plasmando, nello spazio e |nel tempo, lo status giuridico di detti soggetti e così del civis, o del buon civis, della Repubblica di Venezia.

In secondo luogo non può non rilevarsi come il progressivo indirizzarsi delle autorità veneziane verso un modello di governo dell’intero territorio più accentrato ed uniforme, sebbene, almeno sino al XVI secolo, ancora sensibile alle diverse realtà locali, impresse un nuovo corso all’idea di cittadinanza veneta e veneziana. L’adozione di un rilevante numero di ducali, proclami, ordini dai contenuti, quanto meno per la sede che ci occupa, ripetitivi, andava consolidandosi e pervadeva i sistemi giuridici locali pur senza soppiantarli, anzi sovrapponendosi. Permanevano le norme di diritto locale a regolare appartenenza e partecipazione dei cittadini alla comunità, ma andavano aggiungendosi nuove disposizioni dalla Dominante, preoccupata di escludere e negare l’appartenenza al Dominio per coloro che sovvertivano l’ordine e la pace che si era prefissa di garantire e preservare ai suoi sudditi.

Da dette forme di »estraneità« alla civitas, decretata ed, al contempo, accentuata per il tramite di provvedimenti repressivi e restrittivi, si ritiene possano trarsi utili elementi per una lettura critica della cittadinanza tra tardo medioevo e prima età moderna.

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Notes

1 Isidoro di Siviglia (editio 1801) XV, II, 1.

2 Nella direzione di valorizzare anche l’elemento spaziale quale prospettiva d’indagine sulla città e sul territorio si rinvia alle pagine di Costa (2003); Meccarelli (2015); Marchetti (2006); Mannori (2008). Con riferimento, nello specifico, all’esperienza veneta si rimanda a Fusar Poli (2020).

3 Cassi (2013) 79–80 si sofferma sul valore della città nell’immaginario collettivo medievale.

4 Ascheri (2011); Menzinger (2017).

5 Costa (2005) 3–6.

6 Costa (1999); Milani (2017) 192–193; Zendri (2016).

7 Al riguardo rimando ai contributi raccolti in Fioravanti (2002) nonché a Fioravanti (2010).

8 Il tema impegna da sempre la migliore storiografia ed interseca in prospettiva sincronica e diacronica temi quali quello della sovranità e della cittadinanza. Mi limito a rinviare a Costa (1969), e per l’ambito più strettamente connesso all’esperienza dello Stato veneto a Fusar Poli (2020) 7–8.

9 L’espressione è mutuata da Costa (1999) 42.

10 Calore/Mazzetti (eds.) (2019) 3–14.

11 Sulle diverse forme e modelli statuali assunti dalla Repubblica di Venezia, Fusar Poli (2020) 27 e ss.

12 Viggiano (1989); Varanini (2011a); Varanini (2015).

13 Mazzacane (1980); Varanini (1991); Varanini (1995); Varanini (2011b) 26–29.

14 Montanari (2005); Valseriati (2015).

15 Sulle modalità con cui Venezia si approcciò alle importanti reformationes statutarie avviate nel Quattrocento nelle città del Dominio da Terra, si veda Viggiano (1993).

16 Rizzi (2015) 238.

17 Chittolini (1978).

18 Sull' acquisizione e godimento della cittadinanza nella Repubblica di Venezia si rinvia agli studi di Zannini (1993); Casini (1992); Mueller (1998); Molà/Mueller, (1994); Calabi (1996); Trebbi (2001); vallerani (2017) 136 e ss.

19 Sul rapporto ius proprium - ius commune si vedano senza pretesa di esaustività alcuna Ascheri (2000) 153 e ss.; Bellomo (1999) 217 e ss., 475 e ss.; Caravale (1994) 258–266, 473–490; Cavanna (1982) 45–53, 59–65, 70–74; Cortese (1995) 247–304; Di Renzo Villata (2006), 217 e ss; Grossi (2006) 223–235; Grossi (2007) 48 e ss., 56 e ss.; Birocchi/Mattone (2006); AA. VV. (1980); Padoa Schioppa (2016).

20 Sul rapporto tra straniero e legislazione, anche statutaria, si rimanda a Ascheri (1988), Ascheri (1989) e Storti (1990).

21 Paletti (2018) 128.

22 Storti (2012).

23 Fusar Poli (2020) 104–105.

24 Maranini (1974) 384–472.

25 Benzoni (2011) 270–271.

26 Storti (2013) 70–73; Storti (2012); Dani (2018) 75 e ss.

27 Sulla figura di Menochio si rinvia a Valsecchi (2009), nonché Valsecchi (2013); Beretta (1990); Holthöfer (1995); Birocchi (2002) 244–246; Padoa Schioppa (2016) 288–289.

28 Menochio (1600), Casus CCCCCXXXI, Vagabundi qui et de eorum poenis brevis explicatio.

29 Meneghetti Casarin (1984).

30 Sulla notte quale tempus mala praesumptio, si veda Sbriccoli (1991).

31 Ferro (1778–1781) 834.

32 Fassanelli (2011).

33 Lacchè (1988) 359–376.

34 Milani (2017) 179.

35 Sbriccoli (1986) 488.

36 Lacchè (1988) 359–376.

37 Paletti (2018) 175–177.

38 Pullan (1982); Pullan (1994).

39 Cracco (1989).

40 Di Simone (2018); Geremek (1999); Geremek (2001) 123 e ss.

41 Paletti (2020).