»Nel recinto di san Pietro«? A proposito di nuovi studi sulla rinuncia pontificia*

[»In the Enclosure of Saint Peter«? New Studies on Papal Resignation]

Orazio Condorelli Università di Catania, Dipartimento di Giurisprudenza ocondorelli@lex.unict.it

Prima dell’11 febbraio 2013 la rinuncia del papa al suo ufficio era un tema sostanzialmente »confinato« nell’ambito delle discussioni specialistiche riguardanti la storia della Chiesa o le elaborazioni teoriche dei canonisti in margine al can. 332 §2 del vigente Codex Iuris Canonici (=can. 44 §2 del Codex Canonum Orientalium Ecclesiarum). Con la rinuncia di Benedetto XVI – allorché una situazione non inedita ma comunque eccezionale si è nuovamente concretizzata – il tema è stato improvvisamente proiettato nell’agone mediatico, che ha dato la più ampia risonanza a un evento portatore di difficili e serie conseguenze nella vita ecclesiale, oltre che rilevante sotto il profilo canonistico ed ecclesiolo|gico. La comprensibile fioritura di studi storici, canonistici e teologici sul tema della rinuncia pontificia è stata in questo modo alimentata da una positiva interazione con la più competente pubblicistica »vaticanista«, la quale si è giovata della particolare propensione del pontefice uscente e del suo successore a mantenere un vivo e continuo dialogo con i giornalisti. Tale situazione ha creato una moltiplicazione di materiali sui quali costruire la riflessione sui fatti e sulla loro connotazione ecclesiologica e canonistica, riflessione che supera lo stretto nucleo genetico – l’atto di rinuncia pontificia –, per estendersi agli atti, ai fatti e alle parole di Joseph Ratzinger nel successivo decennio di convivenza col successore papa Francesco. Il libro in esame riflette tale contesto, poiché è il frutto della collaborazione di studiosi di diversa estrazione e di giornalisti specializzati, e raccoglie saggi e interventi scritti prima della scomparsa di Joseph Ratzinger (31 dicembre 2022). In questo senso il libro rivela anche le ambiguità e le incertezze di una situazione prolungatasi per parecchi anni dopo l’atto di rinuncia. L’espressione »Papa, non più papa«, scelta come titolo del volume, è controbilanciata da quanto leggiamo nell’introduzione dei curatori – lo storico Amedeo Feniello e il giornalista Mario Prignano –, dove si parla di »coesistenza pacifica di due papi« (10).

Il libro raccoglie sette contributi, che attraverso due millenni giungono agli eventi recenti e alle prospettive de iure condendo, e si conclude con un’appendice che raccoglie le testimonianze e le riflessioni di due giornalisti.

Il saggio di Roberto Rusconi, La rinuncia pontificia nella storia della Chiesa (13–27), costruisce la cornice entro cui sono compresi i successivi contributi. Adottando una prospettiva di lunga durata, l’Autore ripercorre rapidamente vicende più o meno oscure del primo millennio, per transitare nel secondo millennio con la rinuncia di Celestino V e le convulse vicende dello Scisma d’Occidente, durante il quale rinunce si intrecciano con deposizioni. La storia del Novecento presenta diversi casi in cui i pontefici valutarono l’ipotesi di rinunciare all’ufficio o per ragioni politico-militari (Pio XII durante l’occupazione tedesca di Roma) o, più frequentemente, per gravi ragioni di salute (Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II). Si tratta di situazioni in cui la rinuncia rimase allo stato di ipotesi, ma che rappresentano l’anticamera della vicenda che ha dato occasione a un dibattito ormai più che decennale.

I successivi contributi si pongono nella prospettiva di approfondimento di singoli casi o particolari periodi storici.

Il saggio di Paolo Golinelli, L’abdicazione – »gran rifiuto« – di Celestino V (p. 29–40), si sofferma sul caso meglio noto e studiato di rinuncia papale, quello che più di ogni altro presenta elementi di analogia con la rinuncia di Benedetto XVI. Pietro del Morrone, eletto il 5 luglio 1294, rinunciò al pontificato dopo pochi mesi, il 13 dicembre dello stesso anno, nel desiderio di ritornare alla vita monastica e aprendo così la via all’elezione del cardinale Benedetto Caetani. Fu Bonifacio VIII, papa legislatore, a inserire nel suo Liber Sextus (1298: lib. I, tit. de renunciatione, cap. 1) la costituzione Quoniam aliqui curiosi, con cui reiterava la disposizione che Celestino V aveva promulgato, in accordo col collegio dei cardinali, al fine di predisporre le condizioni canoniche per la propria rinuncia (i verbi sono renunciare, resignare). La costituzione individuava nella insufficientia la causa primaria, ma non esclusiva, che potesse offrire una giustificazione morale all’atto di rinuncia: »maxime quum se insufficientem agnoscit ad regendam universalem ecclesiam et summi pontificatus onera supportanda«. A Celestino V forse intendeva riferirsi Dante Alighieri quando collocò nell’antinferno »colui/che fece per viltade il gran rifiuto« (Inferno III.59–60): questa è l’opinione più diffusa, che però incontra obiezioni in coloro che ipotizzano trattarsi di Ponzio Pilato. Golinelli, aderendo con convinzione all’opinione tradizionale, interpreta la parola dantesca »viltade« non già nel senso di viltà o codardia, ma nel senso di inadeguatezza a governare la Chiesa, che nel caso Pietro del Morrone sarebbe derivata dalle sue umili origini contadine.

Le intricatissime vicende dello scisma di Occidente – alle quali è dedicato il saggio di Johannes Grohe, »Quondam Papa«. La rinuncia al tempo dello scisma d’Occidente (p. 41–57) – mostrano come la Chiesa abbia potuto ricucire la divisione durata parecchi decenni attraverso un complesso intreccio di rinunce e deposizioni orchestrate dal concilio di Costanza. Il concilio si costituì come organo rappresentante la Chiesa cattolica militante e si proclamò titolare della suprema potestà in ciò che riguarda la fede, l’estirpazione dello scisma e la riforma in capite et in membris (decreto Haec sancta, 1415). Un tentativo di risoluzione conciliare dello scisma era già stato compiuto dal concilio di Pisa (1409) che, dopo aver deposto Benedetto XIII e |Gregorio XII, elesse Alessandro V, così creando una terza obbedienza accanto a quelle romana e avignonese. Gregorio XII compì un atto di buona volontà e rinunciò al pontificato. Il concilio di Costanza, avendo posto le basi canoniche della decisione, condannò gli altri due contendenti perché il loro pertinace rifiuto di chiudere lo scisma li aveva resi eretici in quanto negatori dell’unità della Chiesa. Il concilio pertanto depose Giovanni XXIII (successore di Alessandro V dell’obbedienza pisana) e Benedetto XIII (dell’obbedienza avignonese), il quale comunque continuò a considerarsi papa legittimo ed ebbe un successore, Clemente VIII, che avrebbe rinunciato alle sue pretese solo nel 1429. Si aprì così la via per l’elezione di Martino V (1417). Ma furono le stesse dottrine conciliari a dare nuova occasione di scisma, allorché il concilio di Basilea, entrato in conflitto con Eugenio IV che voleva trasferire l’assemblea a Ferrara, depose il pontefice come eretico ed elesse al suo posto Felice V (1439), che avrebbe rinunciato al suo (preteso) pontificato dieci anni dopo. Mai come in queste pluridecennali vicende si mostra evidente il nodo canonico sotteso ai conflitti in questione: ossia che la fine di un pontificato per ragioni diverse dalla morte naturale è condizionata o dalla libera volontà di un pontefice (o sedicente tale) di rinunciare all’ufficio, o dalla necessità di risolvere gravissimi problemi ecclesiali attraverso atti di giurisdizione (nei casi ricordati: deposizioni) di incerta compatibilità col principio canonico prima sedes a nemine iudicatur.1

Vi sono fili ben visibili che collegano la storia passata con le vicende contemporanee, come nota Valerio Gigliotti nel saggio su Pietro del Morrone e Joseph Ratzinger: diritto e teologia tra storia e contemporaneità (59–88). Per l’Autore – che al tema della rinuncia ha dedicato una monografia nel 20132– ritornare su Pietro del Morrone/Celestino V è un passo obbligato in ragione degli elementi che permettono di accostare la sua rinuncia a quella di Benedetto XVI. Dal punto di vista formale esse sono state manifestate con declarationes di fronte al collegio dei cardinali, ma anche per gli aspetti sostanziali le due rinunce hanno evidenti tratti comuni. La circostanza offre all’Autore l’occasione per esaminare il tema delle cause legittimanti la renunciatio all’ufficio episcopale come emergono dalla legislazione canonica e dalla dottrina dei decretisti e dei decretalisti. Esse erano individuate nella debilitas corporis, nel defectus scientiae, nella coscienza di aver commesso un crimine, nell’irregolarità, nell’odium plebis, nell’aver generato scandalo nella comunità dei fedeli, ma anche nel desiderio di abbracciare la vita religiosa (zelus melioris vitae). Se nel caso dei vescovi l’accertamento di tali cause era affidato alla cognizione del superiore ecclesiastico, questo non è possibile nel caso della rinuncia papale. Nel caso del sommo pontefice, l’eventuale insussistenza di tali cause è sottratta al giudizio di qualsiasi autorità umana: l’assenza di una causa, che legittimi la rinuncia per il bonum Ecclesiae, rimane un peccato riservato al giudizio di Dio. L’analisi prelude all’interpretazione del giudizio di Dante sulla rinuncia celestiniana: »viltade« è da intendere come inadeguatezza, corrispondente almeno alla causa canonica della insufficientia (defectus scientiae), a cui nel caso di Celestino V si aggiungeva lo zelus melioris vitae. La critica di Dante era indirizzata più alle conseguenze lato sensu di politica ecclesiastica delle decisioni di Celestino, che aveva aperto la via all’elezione di Bonifacio VIII (73). Anche Benedetto XVI ha sentito il bisogno di motivare la propria rinuncia con riferimento al peso della vecchiaia e alla debolezza fisica, che non gli avrebbero consentito di esercitare il modo adeguato il ministero petrino.3 Pertanto la sua rinuncia era asseritamente motivata per il bene della Chiesa, come avrebbe sottolineato il successivo 27 febbraio:4 sì in aderenza alla tradizione che aveva individuato nella insufficientia una causa canonica della rinuncia, ma |in un mutato quadro normativo, poiché l’attuale can. 332 §2 non menziona qualsivoglia causa che legittimi la rinuncia pontificia.5

Nella conclusione della declaratio Benedetto XVI manifestava l’impegno di voler continuare a servire la Chiesa con la preghiera (»Quod ad me attinet etiam in futuro vita orationi dedicata Sanctae Ecclesiae Dei toto ex corde servire velim«): affermazione misurata e adeguata al contesto della necessaria sobrietà confacente all’atto di rinuncia. Tuttavia nell’udienza generale del successivo 27 febbraio 2013 Benedetto XVI pronunciò un’affermazione che ha giustamente suscitato gli interrogativi e le elucubrazioni degli interpreti. L’elezione papale – afferma Benedetto XVI – genera un impegno »per sempre«, nel senso che »non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo […] Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro«. Non si è trattato solo di parole, perché queste affermazioni furono seguite da fatti come la decisione di essere chiamato »Papa emerito« e »Sua Santità«, di continuare a indossare la talare bianca semplice, ma soprattutto di continuare a partecipare attivamente alla vita ecclesiale e sociale con la singolarissima autorevolezza di colui che, oltre a essere »Papa emerito«, era anche teologo di altissimo valore e prestigio. Una situazione veramente eccezionale che si è protratta per un decennio. Da questi fatti prende le mosse il saggio di Roberto Regoli, La novità del papato emerito. Unicità storica o inizio di nuovi tempi? (89–110), il quale nota che »il modo di parlare e di procedere di Ratzinger sembra […] un mistero continuo e suscita molte domande« (100). L’Autore è consapevole che una parte della scienza canonistica ha preso le distanze da alcune conseguenze che potrebbero trarsi da questi fatti (tornerò più avanti sul tema): non è certo un caso, ma risponde a una diffusa rappresentazione, che il decennio di Ratzinger dopo la rinuncia sia stato definito come un »papato-ombra«.6 Nondimeno, a suo avviso si tratterebbe di una »rinuncia creativa«, che imporrebbe all’osservatore di »partire dalla realtà che accade e non da mere dottrine giuridiche; e contemporaneamente bisogna prendere in considerazione le ricezione dei fatti e degli eventi da parte del corpo ecclesiale nel suo insieme e nel tempo« (104).

Su questi fatti, letti alla luce della tradizione canonica, si innesta la limpida analisi condotta da Gianfranco Ghirlanda, La rinuncia al suo munus da parte del Romano pontefice: il canone 332 (111–133). La normativa canonica sulla cessazione dall’ufficio papale è estremamente scarna. L’unica ipotesi canonizzata è quella della rinuncia, per la cui validità il can. 332 §2 CIC (=can. 44 §2 CCEO) esige solo che sia fatta liberamente (libere) e manifestata in modo adeguato (rite), mentre non richiede che sia accettata da chicchessia, poiché il Sommo Pontefice non ha superiore. Ancora più scarna era la disposizione del CIC 1917 (can. 221), il quale si limitava a precisare che non era prevista l’accettazione dei cardinali o di qualsivoglia altro soggetto ecclesiastico. La normativa vigente, pertanto, dispone solo sull’ipotesi della rinuncia, rinvia a una legislazione speciale per la sede vacante (per morte o rinuncia) e per la sede totalmente impedita (can. 335 CIC = can. 47 CCEO), omette di disporre (allineandosi a una tradizione canonicamente silente per quanto dottrinariamente loquace) sulle ulteriori due ipotesi di totale infermità mentale e di notoria apostasia, eresia o scisma. Sull’ipotesi della totale infermità mentale, o di un Papa che, pur avendo irreversibilmente perso la coscienza, sia mantenuto in vita attraverso trattamenti tecnologico-sanitari, Ghirlanda (creato cardinale nel concistoro del 27 agosto 2022) ritiene che vi sia spazio e opportunità per una legislazione speciale tuttora mancante. L’ipotesi del papa eretico è quella che nella storia ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro, si è concretizzata in epoca conciliarista con le deposizioni a cui sopra ho accennato, ma presenta l’insormontabile difficoltà che anche una sentenza dichiarativa implica l’esercizio di una iurisdictio supra papam contro il principio canonico prima sedes a nemine iudicatur (oggi formalizzato al can. 1404 CIC=1058 CCEO). Sul caso di Benedetto XVI, che ha suscitato le questioni sopra discusse, l’Autore enuncia il suo giudizio chiaro e da condividere: »È evidente che il papa che ha rinunciato non è più papa, quindi non ha più alcuna potestà |nella Chiesa e non può più immettersi in alcun affare di governo« (129); precisando che per questa ragione il titolo di papa emerito è equivoco e generatore di confusione (130). Rimangono da interpretare i modi in cui Benedetto XVI ha parlato della propria rinuncia. Sul punto Ghirlanda, tornando al discorso del 27 febbraio 2013, rileva che »nella visione di Benedetto del ministero petrino non si ha una identificazione tra munus e officium, per cui, rinunciato all’officium e alla potestà che esso comporta, resterebbe il munus«: munus che permarrebbe non già nell’esercizio della potestà ma »in patiendo et orando«, come è affermato nella Declaratio dell’11 febbraio 2013 (131). L’Autore interpreta queste affermazioni come manifestazione della visione ecclesiologica ratzingeriana della non distinzione tra potestas ordinis e potestas iurisdictionis, in quanto le due potestà procederebbero unitariamente dalla consacrazione episcopale (come affermato dal Concilio Vaticano II al n. 21 della costituzione Lumen gentium, che però deve essere intepretato alla luce della Nota explicativa praevia, n. 2).7 Inoltre le affermazioni di Benedetto XVI sarebbero da leggere sul filo della teoria di Karl Rahner, il quale avanzò l’ipotesi »che il primato sia il grado supremo del sacramento dell’ordine, per cui l’ordinazione relativa del papa per la sede primaziale sarebbe un’ordinazione episcopale specifica« e l’elezione seguita dall’accettazione conferirebbe perfino un carattere indelebile al primato (132). Ma – osserva giustamente Ghirlanda – »la natura sacramentale del Primato è estranea a tutta la tradizione teologica« (132 nota 58), e una siffatta opinione teologica renderebbe incomprensibile (e impossibile) la rinuncia all’ufficio: in pratica, il papa non perderebbe mai il primato anche se vi rinunciasse.8 Se così fosse, ogni rinuncia papale seguita da una successiva elezione produrrebbe una Chiesa bicipite. Insomma, per comprendere la rinuncia, alla luce della tradizione canonica e della realtà ontologica dell’ordine episcopale e dell’ufficio petrino, è impossibile prescindere dalla distinzione tra potestas ordinis (indelebile) e potestas iurisdictionis, che il Sommo Pontefice perde con la rinuncia (per lasciare da parte ogni valutazione sull’ipotesi del papa eretico o scismatico, e pur prendendo atto che in alcuni momenti della vita della Chiesa abbiamo assistito alla deposizione di papi). Come Agostino Trionfo († 1328) aveva icasticamente affermato parlando appunto della rinuncia papale, »papatus est nomen iurisdictionis, et non ordinis«.9 La distinzione fra potestas ordinis e potestas iurisdictionis è maturata nella »coscienza pratica« della Chiesa del primo Millennio, è stata elaborata scientificamente dalla dottrina canonistica a partire dal secolo XII, è e rimane uno strumento indispensabile per comprendere le relazioni tra consacrazione episcopale, missione canonica, cessazione dall’ufficio,10 nonché per inquadrare canonicamente il tema della cooperazione dei laici |alla funzione di governo nella Chiesa.11 Da questo discende – conclude Ghirlanda – la necessità di leggere le affermazioni teologiche alla luce della tradizione canonica e canonistica, per evitare fraintendimenti che possano condizionare la vita della Chiesa. Pertanto le affermazioni di Benedetto XVI sono da apprezzare e accogliere per il loro »forte valore spirituale, direi mistico«, ma non »come affermazioni strettamente dottrinali di carattere ecclesiologico e tanto meno canonico« (133). Pertanto – aggiungo io –, occorre ridimensionare l’asserita »creatività« della rinuncia di Benedetto XVI.

Il saggio finale di Geraldina Boni si proietta verso Prospettive de iure condendo (135–166). L’Autrice – che per parte sua ha studiato il tema della rinuncia in una monografia del 2015 –12 presenta e introduce il lavoro di un gruppo di ricerca che ha prodotto due progetti di costituzione apostolica, il primo »Sulla Sede romana totalmente impedita«, il secondo »Sulla situazione canonica del Vescovo di Roma che ha rinunciato al suo ufficio«. Il lavoro del gruppo di ricerca muove dalla convinzione che sia opportuno provvedere legislativamente non solo su questa seconda situazione – tema di particolare rilevanza quando il tempo della convivenza tra l’ex-papa e il nuovo papa sia particolarmente prolungato, come nel decennio in cui Joseph Ratzinger è stato »papa emerito« –, ma anche sulla situazione estremamente difficile e delicata in cui la sede romana sia totalmente impedita. Sullo sfondo delle diverse ipotesi in cui questa situazione potrebbe verificarsi, si staglia il caso di una inabilità prolungata o anche perpetua e irreversibile che renda il Romano Pontefice incapace di esercitare il proprio ufficio: ipotesi che nei nostri tempi si presenta particolarmente grave per le possibilità, acquisite dalla scienza medica e dalle tecniche sanitarie, di mantenere in vita per un tempo indefinito persone prive della capacità di intendere e di agire. È di tutta evidenza che una situazione di tal genere sarebbe fortemente critica nella vita della Chiesa, perché de facto e per tempi ipoteticamente molto lunghi il Romano Pontefice sarebbe incapace di esercitare le sue funzioni.

Una regolamentazione canonica delle due differenti situazioni sarebbe un’assoluta novità nella tradizione della Chiesa, anche se il progetto sulla sede romana totalmente impedita si insinua nelle maglie del codice canonico, che al can. 335 (=CCEO can. 47) per l’ipotesi della sede romana vacante o totalmente impedita si limita a dettare il tradizionale »nihil innovetur«, rinviando alle leggi speciali prodotte per siffatte situazioni. Se una legge speciale che disciplina la sede vacante c’è – la costituzione Universi Dominici Gregis di Giovanni Paolo II (1996), con le modifiche apportate da Benedetto XVI nel 2007 e nel 2013 –, una legge speciale sulla sede romana impedita non è mai esistita.

Il primo progetto di costituzione apostolica è dotato di un ampio preambolo esplicativo e si articola in un Capitolo I su »La sede romana totalmente e temporaneamente impedita«; un Capitolo II su »La sede romana totalmente impedita |per incapacità certa, permanente e incurabile del Romano Pontefice«; un Capitolo III su »La consulta medica«; un Capitolo IV di »Disposizioni finali«, per un totale di ventuno articoli.

Il secondo progetto di costituzione apostolica, »Sulla situazione canonica del Vescovo di Roma che ha rinunciato al suo ufficio«, è anch’esso introdotto da un preambolo e consta di sette articoli.

È necessario precisare che il testo pubblicato sul volume qui recensito presenta una versione datata agosto 2021. Il testo dei due progetti è stato successivamente presentato in un convegno italiano nell’ottobre 2022, nei cui atti è pubblicata una versione, che accoglie alcune modifiche e integrazioni, datata marzo 2023.13 Sul sito web del gruppo di ricerca si legge una versione aggiornata al 21 aprile 2023.14

Non è mio compito procedere all’analisi delle proposte di costituzione apostolica. Mi limito solo a qualche rapida considerazione di carattere generale, in superficie. Quanto al progetto sulla sede romana impedita, il preambolo (n. 6) richiama giustamente la prudenza quale movente che indurrebbe a far sì che nell’ipotesi di sede romana totalmente impedita per incapacità permanente della persona del Romano Pontefice si producano i medesimi effetti che il diritto prevede per l’ipotesi di sede vacante (autorevole dottrina canonica aveva affermato il principio che amentia aequivalet morti). Questa prudenza, che renderebbe opportuno un intervento legislativo sul tema, nella storia è stata però controbilanciata da una diversa considerazione (anch’essa frutto di valutazione prudenziale), che in siffatte situazioni ha indotto la Chiesa a confidare nella Provvidenza e nel soffio dello Spirito Santo piuttosto che nell’intervento umano (come fino ad oggi attesta l’assenza di qualsivoglia disciplina specifica).15 Sta di fatto che la disciplina della sede vacante presuppone la mancanza di un papa, per morte o rinuncia, mentre la disciplina della sede impedita presuppone l’esistenza di un papa nell’esercizio (per quanto impedito) delle sue funzioni. Le procedure delineate dalla legge sono inevitabilmente molto complesse, coinvolgono la partecipazione di diversi soggetti singoli e collegiali – il Collegio dei Cardinali convocato dal Decano o da altro cardinale a suo nome, la Consulta medica che emette le perizie –, sono scandite secondo termini temporali e prevedono decisioni da prendere con maggioranze determinate, per tacer di tanti altri aspetti della catena dei molteplici adempimenti.

La natura meramente declaratoria della decisione che la sede romana è impedita per incapacità totale e permanente del Romano Pontefice è senza dubbio cosa assolutamente diversa da un giudizio di rimozione o deposizione. L’affermazione che la cessazione dall’ufficio opera ipso iure (preambolo, n. 6), tuttavia, non cancella il fatto che l’oggetto della dichiarazione è pur sempre la persona che ricopre l’ufficio di Romano Pontefice, il che è comunque materia toccata dal principio canonico prima sedes a nemine iudicatur. Inoltre, l’esperienza delle cose umane insegna che in ciascun anello di una lunga e complessa catena procedurale potrebbe annidarsi un ostacolo, e che da ciascun momento della procedura potrebbe scaturire una contro|versia. Per siffatte controversie – che potrebbero minare alla base la credibilità e l’accettazione stessa della dichiarazione da parte dei fedeli – non vi è un giudice predeterminabile o predeterminato (e infatti il progetto tace sul punto): lo stesso Collegio cardinalizio come giudice in re propria? un concilio ecumenico (non si sa da chi convocato e comunque privo del suo caput)? I tanti problemi trattati nei precedenti saggi del volume qui recensito (deposizioni, rinunce, pluralità di papi) sono stati risolti nella storia e dalla storia con soluzioni che sfuggono alla astratta razionalità degli schemi canonici o da questi di distaccano apertamente.

Le mie considerazioni, comunque, non intendono sminuire l’apprezzabilissimo valore ecclesiale, oltre che scientifico, del lavoro di un gruppo di ricerca che ha operato nell’intento di collaborare per il bonum commune Ecclesiae al fine di predisporre una soluzione accettabile per alcuni problemi che potrebbero verificarsi con frequenza nell’immediato futuro. Altrettanto lodevole è l’intento che ha mosso il gruppo nella redazione del secondo progetto di costituzione apostolica, diretto a regolare la situazione canonica del Vescovo di Roma che ha rinunciato al suo ufficio. In realtà il progetto tocca, a monte, lo stesso atto di rinuncia, disciplinandolo nei quattro paragrafi dell’art. 1, il quale amplia e precisa diversi aspetti ora implicati nella scarna formulazione dell’attuale can. 335 (=CCEO can. 44 §2). Sulla linea delle considerazioni svolte più sopra a margine del saggio di Gianfranco Ghirlanda, penso sia altamente utile, per sgombrare ogni dubbio sulle implicazioni dell’atto di rinuncia, l’affermazione di carattere dottrinale contenuta nell’art. 1 §2 del progetto: »La rinuncia del Romano Pontefice si riferisce al suo ufficio e a tutte le potestà, ministeri, incarichi, diritti, privilegi, facoltà, grazie, titoli e insegne, anche quelle meramente onorifiche, inerenti all’ufficio stesso«. Non mi soffermo sui dettagli del progetto, le cui norme »vogliono essere specialmente rispettose della dignità personale di chi ha occupato la cattedra di San Pietro« (preambolo, n. 5). Segnalo, in particolare, l’art. 2 §1, secondo il quale, »una volta che la rinuncia abbia sortito effetto, il rinunciante assume il titolo di Vescovo emerito di Roma«. Questa scelta, a mio avviso, non dissipa le perplessità o le critiche suscitate dall’uso del titolo di »papa emerito«, a causa della equivalenza delle due denominazioni: il vescovo di Roma è papa e Romano Pontefice, e viceversa non può esistere un papa o Romano Pontefice che non sia Vescovo di Roma.16

La Postfazione del volume si apre con la testimonianza di Cristiana Caricato, 11 febbraio 2013 (169–178), che ripercorre i frenetici processi di comunicazione mediatica della rinuncia di Benedetto XVI, irradiatisi dalla Sala Stampa della Santa Sede. Il saggio conclusivo di Massimo Franco, La rinuncia prossima ventura (179–185), si addentra nei meandri del »papato-ombra«, evidenziando come Joseph Ratzinger abbia »assunto un ruolo inedito: defilato, discreto, ma cruciale« (181), entro un orizzonte ecclesiale polarizzato sui due fronti dei »ratzingeriani« e dei »bergogliani«, nel quale Benedetto è stato visto come »una sorta di custode teologico di un Francesco che gli avversari descrivono intrappolato nell’agenda del progressismo di alcuni vescovi tedeschi e sudamericani« (183). Il nodo irrisolto è se la rinuncia di Benedetto XVI rimarrà un atto isolato oppure fornirà l’esempio di un nuovo modo di concepire l’esercizio dell’ufficio papale.

Il volume presenta una raccolta utile e ben costruita di saggi, tematicamente variati, che coprono la bimillenaria storia della Chiesa negli aspetti complementari della ricostruzione storica e dell’analisi canonistica, con utili prospettive di orientamento. L’opera scaturisce dalla recente esperienza, la quale mostra come sul tema della rinuncia pontificia convergano linee di interesse che non rimangono rinchiuse nei recinti accademici tra le curiosità storiche o teoriche, ma più in generale interpellano la partecipe riflessione degli studiosi e delle varie componenti ecclesiali su situazioni che incidono profondamente nella vita della Chiesa cattolica.

Notes

* Amedeo Feniello, Mario Prignano (a cura di), Papa, non più papa. La rinuncia pontificia nella storia e nel diritto canonico, Roma: Viella 2022 (La storia 105), 191 p., ISBN 979-12-5469-191-5

1 Orazio Condorelli, Il papa deposto tra storia e diritto, in: Ephemerides Iuris Canonici, nuova serie, 56,1 (2016), 5–30; idem, Antonio da Budrio e le dottrine conciliari al tempo del concilio di Pisa, in: Rivista Internazionale di Diritto Comune 27 (2016), 79–157.

2 Oltre a diversi altri lavori ricordati nelle note del saggio: Valerio Gigliotti, La tiara deposta. La rinuncia al papato nella storia del diritto e della Chiesa, Firenze 2013.

3 Benedetto XVI, Declaratio, datata 10‍‍‍ febbraio 2013, ma pronunciata nel concistoro del giorno successivo, in: Acta Apostolicae Sedis 105,3 (2013), 239–240.

4Benedetto XVI, Udienza generale, Piazza San Pietro, mercoledì27 febbraio 2013; https://www.vatican.va/content/ benedict-xvi/it/audiences/2013/ documents/hf_ben-xvi_aud_ 20130227.html.

5 Il che, ovviamente, non significa che il diritto non debba tenere in considerazione la giustizia dell’atto di rinuncia pontificia, per quanto esso sia insindacabile: Fernando Puig, La rinuncia di Benedetto XVI all’ufficio primaziale come atto giuridico, in: Ius Ecclesiae 25 (2013), 798–897.

6 Massimo Franco, Il monastero. Benedetto XVI, nove anni di papato-ombra, Milano 2022.

7 Gianfranco Ghirlanda, »Hierarchica communio«. Significato della formula nella »Lumen Gentium«, Roma 1980; Orazio Condorelli, Principio elettivo, consenso, rappresentanza: itinerari canonistici su elezioni episcopali, provvisioni papali e dottrine sulla potestà sacra da Graziano al tempo della crisi conciliare (secoli XII–XV), Roma 2003, 186–198.

8 Sul tema cfr. le convergenti considerazioni di Carlo Fantappiè, Sacramento e/o giurisdizione: la rinuncia papale e il papa emerito, in: idem, Ecclesiologia e canonistica, Venezia 2015, 359–398, in particolare 386–398.

9 Augustini Triumphi, Anconitani catholici doctoris Summa de potestate ecclesiastica edita anno Domini mcccxx, Romae: Ex Typographia Georgii Ferrarii 1584, Quaestio quarta, De Papae renunciatione, articulus II, Utrum papa posset renunciare Papatui, si papatus esset nomen ordinis, et non iurisdictionis, p. 41a; Michael Wilks, Papa est nomen iurisdictionis: Augustinus Triumphus and the Papal Vicariate of Christ, in: The Journal of Theological Studies 8,2 (1957), 256–271.

10 Alfons M. Stickler, La bipartición de la potestad eclesiástica en su perspectiva histórica, in: Ius Canonicum 15, fasc. 29 (1975), 45–75; idem, Origine e natura della sacra potestas, in: Sandro Gherro (a cura di), Studi sul primo libro del Codex Iuris Canonici, Padova 1993, 73–90; Orazio Condorelli, La distinzione tra potestà di ordine e potestà di giurisdizione nella tradizione canonica bizantina, in: Giuseppe D’Angelo (a cura di), Rigore e curiosità. Scritti in memoria di Maria Cristina Folliero, I, Torino 2018, 241–271; Roberto Interlandi, Potestà sacramentale e potestà di governo nel primo Millennio. Esercizio di esse e loro distinzione, Roma 2016. Con riferimento al caso della rinuncia papale Geraldina Boni, Sopra una rinuncia. La decisione di Papa Benedetto XVI e il diritto, Bologna 2015, 12–29.

11 CIC can. 129 §2 (cfr. CCEO can. 979 §2); can. 1421 §2 (cfr. CCEO can. 1087 §2); can. 1673 §2 (come modificato dal motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus, sulla riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio nel Codice di Diritto Canonico, 15 agosto 2015) (cfr. CCEO can. 1359 §3, come modificato dal motu proprio Mitis et Misericors Iesus, sulla riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, 15 agosto 2015). Sul tema è recentemente intervenuta la costituzione apostolica Praedicate Evangelium sulla Curia Romana e il suo servizio alla Chiesa e al Mondo, 19 marzo 2022. In particolare si vedano i Principi e criteri per il servizio della Curia Romana, n. 5, »Indole vicaria della Curia Romana: Ogni Istituzione curiale compie la propria missione in virtù della potestà ricevuta dal Romano Pontefice in nome del quale opera con potestà vicaria nell’esercizio del suo munus primaziale. Per tale ragione qualunque fedele può presiedere un Dicastero o un Organismo, attesa la peculiare competenza, potestà di governo e funzione di quest’ultimi«. Sulle possibilità aperte alla partecipazione dei laici nell’esercizio della funzione di governo, in forza del principio che »la potestà di governo nella Chiesa non viene dal sacramento dell’Ordine, ma dalla missione canonica«, si veda l’intervento del Prof. Gianfranco Ghirlanda, S.I. nella conferenza stampa di presentazione della costituzione apostolica »Praedicate Evangelium«, 21.03.2022, in particolare il n. 1 sul Ruolo dei laici e carattere vicario della Curia, https://press. vatican.va/content/salastampa/it/ bollettino/pubblico/2022/03/21/ 0192/00417.html (ultimo accesso 26.04.2024).

12 Geraldina Boni, Sopra una rinuncia, cit. (n. 10). Sul tema della rinuncia, dopo l’opera qui recensita, sono apparsi i due seguenti volumi: Beatrice Serra (a cura di), La rinuncia all’ufficio petrino. Itinerari dottrinali a dieci anni dalla Declaratio di Benedetto XVI, Napoli 2023; Sebastian Marx, Episcopus emeritus Ecclesiae Romanae. Eine kanonistische und rechtshistorische Untersuchung des päpstlichen Amtsverzichts unter besonderer Berücksichtigung der Verzichtsleistung Papst Benedikts XVI, Berlin 2023.

13 Si tratta del Convegno svoltosi nell’Università di Torino dal 3 al 4 ottobre 2022, organizzato di concerto con l’Associazione dei docenti universitari della disciplina giuridica del fenomeno religioso (Adec): Ilaria Zuanazzi, Maria C. Ruscazio, Valerio Gigliotti (a cura di), La sinodalità nell’attività normativa della Chiesa. Il contributo della scienza canonistica alla formazione di proposte di legge, Modena 2023. Tutta la seconda parte del volume riguarda le proposte di costituzione apostolica in oggetto. In particolare si vedano i contributi di Antonio Viana, Presentazione della Proposta di legge sulla sede romana totalmente impedita, 149–160; Giuseppe Comotti, Presentazione della Proposta di legge sulla situazione canonica del Vescovo di Roma che ha rinunciato al suo ufficio, 175–193.

14 Gruppo di ricerca – Sede romana totalmente impedita e status giuridico del Vescovo di Roma che ha rinunciato, https://www.progettocano nicosederomana.com/ ultima consultazione 25.04.2024. Per una presentazione del lavoro del gruppo di ricerca si vedano Thierry Sol, Gruppo di ricerca, Sede romana totalmente impedita e status giuridico del Vescovo di Roma che ha rinunciato, in: Ius Ecclesiae 33,2 (2021), 695–697; Antonio Viana, Epilogo. Breve relazione su un’iniziativa della canonistica (2020–2023), in: Zuanazzi et al. (a‍‍‍ cura di), La sinodalità nell’attività normativa della Chiesa, cit. (n. 13), 471–482.

15 Con questo non intendo sostenere che »la Provvidenza Divina non permetterà mai che la persona del Santo Padre possa soffrire un’incapacità che lo separi permanentemente dal governo della Chiesa«, come pure hanno ritenuto alcuni autori che adottarono un »approccio provvidenzialista« alla questione: sul tema Viana, Presentazione della Proposta di legge sulla sede romana totalmente impedita, cit. (n. 13), 152–153.

16 In questo senso già Carlo Fantappiè, Né Papa né Vescovo emerito di Roma. Sul titolo del Papa che rinuncia, in: Zuanazzi et al. (a cura di), La sinodalità nell’attività normativa della Chiesa, cit. (n. 13), 335–349, il quale propone di »definire il Papa che rinuncia ›già Papa‹, seguìto dal nome prescelto al momento dell’elezione (come accadde per Celestino V che fu definito ›olim papa‹)« (348); nonché Ghirlanda nel contributo contenuto del volume qui recensito (130).