Il diritto internazionale visto dal problematico State building della penisola italiana*

[International Law as Seen from Italy’s Troubled State Building]

Bernardo Sordi Università degli Studi di Firenze bernardo.sordi@unifi.it

Non sono molto frequenti le occasioni di riflessione interna delle singole discipline giuridiche sul proprio percorso storico. Questa ricerca collettiva va quindi salutata con soddisfazione perché, promossa in larga misura da internazionalisti, offre alla genealogia storica uno spazio significativo.

Il focus del volume converge sul periodo intercorrente tra l’unificazione politica del Regno, nel 1861, e il secondo dopoguerra. Qui si concentra l’articolata griglia dei saggi, in grado di offrire un apporto conoscitivo importante: sull’evoluzione della disciplina; sui protagonisti; sugli indirizzi metodici; ma anche sulle riviste e gli strumenti di principale divulgazione scientifica; intrecciando all’esame endodisciplinare una verifica degli snodi principali della politica estera italiana del tempo, dal passaggio dal Piemonte subalpino al Regno d’Italia (Marchisio, 285 e ss.), alla Questione romana e alla controversa personalità giuridica internazionale della Santa Sede (Di Ruzza, 310 e ss.); sino all’avventura coloniale (Scovazzi, 334 e ss.) e alla prima guerra mondiale (Bartolini, 359 e ss.), severissimo banco di prova degli equilibri europei, apertosi con la denuncia del trattato della Triplice alleanza e conclusosi con la problematica posizione italiana nella conferenza di pace e la ricerca di un nuovo ordine internazionale dopo il conflitto.

Il lettore trova quindi, con profitto, ritratti problematici e approfonditi dei principali protagonisti. A partire da Pasquale Stanislao Mancini (1817–1888), notevole personaggio della stagione risorgimentale, padre del fortunato principio di nazionalità come base della stessa legittimazione della soggettività internazionale, espresso in una celebre prolusione torinese del gennaio 1851 destinata a far scuola (anche in alcune norme chiave del primo codice civile unitario del 1865 sulla posizione dello straniero); uomo politico tra i più illustri dell’Italia liberale e caposcuola dei primi indirizzi della disciplina nel periodo immediatamente successivo all’unificazione (Greppi, 79 e ss.; Mura, 109 e ss.).

Sino al monumentale rilievo di Dionisio Anzilotti (1867–1950), il vero demiurgo dell’interna|zionalistica italiana, in grado di far decollare la disciplina verso una precisa dimensione europea. Nel volume (Bartolini, 127 e ss.) se ne indagano i collegamenti con la scienza giuridica tedesca e con Heinrich Triepel in particolare; la tesi dualistica nei rapporti tra diritto interno e internazionale; la conseguente impronta statualistica; la inclinazione formalistica, sia pur sempre moderata da una notevole attenzione alla prassi internazionale e da un persistente dialogo con impostazioni di taglio metodico diverso.

Come nei settori del diritto costituzionale e del diritto amministravo già sono all’opera Vittorio Emanuele Orlando e Santi Romano, anche nel diritto internazionale occorre realizzare una piena scientificizzazione della materia, costruendo teorie giuridiche e rendendo ogni branca del diritto pubblico »un sistema scientificamente autonomo« (Orlando, 1889).

Questa scientificizzazione paga lo scotto del formalismo, ma gli algidi purismi sono ancora lontani. E lo stesso Anzilotti, che pure – come scrive Paolo Grossi in Scienza giuridica italiana (83) – »manda definitivamente in soffitta la vecchia dominanza giusnaturalistica«, separando »i principii ideali di giustizia« dalle »norme giuridiche positive«, mantiene forte il filo rosso del collegamento con la realtà internazionale e con lo stesso percorso storico, come dimostra il fitto dialogo con Romano, nel 1911, in occasione del primo cinquantenario dell’unificazione, su I caratteri giuridici della formazione del Regno d’Italia.

Occorre riconoscere che il volume non si ferma ai due padri storici, Mancini e Anzilotti. E si sofferma sia su alcuni altri grandi protagonisti, da Cavaglieri a Fedozzi, da Donati a Perassi e ai suoi primi dialoghi con il normativismo kelseniano, sino allo stesso Romano, nel volume attentamente valorizzato anche nei suoi apporti internazionalistici e nella convincente indagine, a base istituzionistica, della comunità internazionale (Bartolini, 149–155), sia sui tanti personaggi minori.

Una realtà disciplinare che si ingrossa quindi tra ’800 e ’900, nonostante la penisola sia un soggetto di diritto internazionale solo recentemente ammesso al ristretto club delle nazioni civili. Vicende che non spiegano soltanto la intrinseca limitatezza della politica estera del giovane Stato unitario, ma che incidono naturalmente anche sul prestigio accademico della disciplina.

L’irrompere del fascismo non sembra causare, almeno nei primi anni del regime, gravi scossoni. A differenza di altre esperienze totalitarie, non ci sarà né uno Schmitt italiano, né un Pashukanis (Bartolini, 165). Lo stesso asse Roma-Berlino sarà tenuto in piedi da personaggi di seconda fila o affidato ai poligrafi del regime, come Carlo Costamagna, esterni alla disciplina. E nondimeno il fascismo ne impatta pesantemente le sorti; personalmente e drammaticamente con le leggi razziali, che colpiscono diversi internazionalisti di razza ebraica (Catellani, Ottolenghi, Sereni, Cino Vitta e il figlio Edoardo …); ma anche sterilizzando i temi scientifici trattati, con l’espunzione sistematica delle questioni invise al regime, specialmente dopo la guerra d’Etiopia e il varo delle sanzioni, o la guerra civile spagnola, quando si moltiplicano gli scritti propagandistici a difesa dell’aggressiva politica estera italiana degli anni Trenta e contro la Società delle nazioni (Bartolini, 375–382); infine, con il disastro della guerra, sino a costringere, di fatto, l’organo principe della disciplina, la Rivista di diritto internazionale, ad un lungo silenzio che si protrae per l’intero decennio 1943–1953.

Un silenzio, pur parzialmente compensato dalla nascita di altri fogli internazionalistici (Ingravallo, 206–208), tanto più assordante perché contemporaneo al momento costituente e alle scelte univocamente ispirate al primato del diritto internazionale fatte proprie dalla carta repubblicana del 1948 (artt. 10 e 11) e al notevole impegno degli internazionalisti nei lavori preparatori: Roberto Ago e Gaetano Morelli nella Commissione Forti; Tomaso Perassi nella Commissione dei 75 (Virzo, 390–399).

Nonostante il ribollire del nuovo contesto internazionale, da Yalta all’atomica, da Norimberga a Tokyo, dalla Carta delle Nazioni Unite alla Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, sino ai primi passi del progetto europeo, poco però ancora filtra nella dimensione pacificata della disciplina.

Il ›disgelo‹ dall’imperante formalismo, del resto comune anche ad altri ambiti disciplinari, inizierà ad arrivare solo dalla fine degli anni Cinquanta, ben testimoniato, da un lato dal diffondersi di indirizzi teorici improntati all’indagine realistica dei fatti sociali, da Rolando Quadri a Mario Giuliano, sino a Roberto Ago (Tancredi, 173 ss.); dall’altro, dalla crescente attenzione alla grande novità dell’ordine giuridico europeo, che inizia a calamitare l’attenzione, prima di Riccardo Monaco (anche per la sua posizione al ministero degli esteri come capo dell’Ufficio Trattati e poi del Contenzioso diplomatico) e quindi di Gaetano Morelli, Giuseppe Sperduti, Nicolò Catalano (Milano, |425–429). Indirizzi, più recentemente confluiti verso una sempre più solida attenzione alla realtà internazionale e alla prassi diplomatica e giurisprudenziale, anche in funzione di una crescente ›liberalizzazione‹ del tradizionale sistema delle fonti del diritto internazionale, nell’ottica di un ›positivismo illuminato‹ (Palchetti, 473) frutto di un equilibrato dosaggio tra teoria giuridica e osservazione critica dell’intrinseca fattualità delle relazioni internazionali, in sintonia con il variegato dibattito metodologico, europeo ed extraeuropeo.

Il volume offre, dunque, con ottima leggibilità e accurati apparati informativi, un ritratto convincente della internazionalistica italiana nell’ottica, suggerita da Martti Koskenniemi, di studiare il diritto internazionale, non solo nella sua naturale dimensione universale, ma a partire dalle tante e plurali declinazioni nazionali.

E’ semmai sulla prospettiva della lunga durata che la ricerca dovrà in futuro svilupparsi. Il volume, coraggiosamente si era spinto anche in questa direzione, aprendosi con un bellissimo saggio di Claudia Storti (19–47) dedicato alla dottrina di diritto comune dello ius gentium, in grado di portare con mano il lettore nella specificità della interpretatio dei giuristi medievali, svelando la eccezionale capacità di quei sapientes di dare un senso ordinante, sulla base dei soli testi autoritativi ereditati dalla classicità, ad una realtà fatta di città nascenti, con i loro potenti sistemi urbani posti negli snodi di collegamento della civiltà della mercatura, e di poteri universali, marcatamene declinanti, almeno dall’inizio del Trecento, sino alla crescente istituzionalizzazione di assetti federativi, ancora in larga misura prestatuali, di convergenza istituzionale.

Passato questo momento aureo, il racconto, alle prese con la frammentata storia d’Italia, non solo viene a scontrarsi con la difficoltà epistemologica del nesso sempre indaginoso tra ius gentium, ius publicum universale e diritto internazionale, ma deve calarsi in un contesto a lentissima unificazione e tagliato fuori dalle politiche di potenza delle grandi monarchie nazionali, nel quale la stessa declinazione pubblicistica del diritto sconta significativi ritardi di emersione rispetto agli altri percorsi continentali.

L’impressione è che non sia sufficiente limitarsi a prestare la doverosa attenzione – come pure correttamente nel volume si fa con buone pagine (Rech, 48 e ss.) – alle grandi eccellenze italiane, da Alberico Gentili a Giambattista Vico, da Paolo Sarpi a Giovanni Maria Lampredi, se si vuole evitare che questo percorso per grandi esempi finisca per ricadere nel racconto, ormai datato, che dall’eccellenza medievale, imbocca in modo inesorabile, all’indomani delle guerre d’Italia, la strada della decadenza, per approdare infine fortunosamente al glorioso revirement del Risorgimento. Condannando in tal modo all’oscurità non solo i secoli della prima modernità, e dell’antico regime maturo, nei quali le stesse compagini statuali si erano costruite nella penisola in gran parte attraverso patti federativi delle dominanti con le città soggette; ma anche l’impatto italiano con la Rivoluzione e quindi con le non poche novità introdotte dalla dominazione napoleonica.

Per questo lungo arco secolare, solo una piena collaborazione tra storici e giuristi potrà restituire profondità ad una preistoria, tutta italiana, del diritto internazionale, altrimenti ristretto al solo breve spazio della piena emersione, necessariamente tardiva, dello Stato nazionale e di una politica estera finalmente nazionale.

Notes

* Giulio Bartolini (ed.), A History of International Law in Italy, Oxford: Oxford University Press 2020, 491 p., ISBN 978-0-19-884293-4