Giustizia divina e giustizia terrena*

[Divine Justice and Earthly Justice]

Andrea Cicerchia Universidade Católica Portuguesa, Lisboa cicerchia.andrea@gmail.com

Io mi creddo, che non si possa prohibire cotesta citazione
secondo le debite maniere, e ben intesa, come né anco
l’appellatione dal giudice inferiore al superiore;
che altro non è questa citazione […] che appellatione
dal giuditio humano al tribunale di Dio.(G.B. Terzi, Il rimedio sopremo, Bergamo 1596, 140)

L’efficace brano riferito da Guido Dall’Olio nel suo recente studio sulla pratica delle citazioni in valle Iosaphat (136) – a comparire, cioè, dinanzi al supremo tribunale di Dio – ci permette di evidenziare come un canonico bergamasco di fine Cinquecento, Giovanni Battista Terzi, intendesse la relazione tra giustizia umana e giustizia divina, sarebbe a dire, secondo un senso giuridico legittimato dall’appello da un grado inferiore di giustizia (appunto quella umana) ad uno superiore. In tale grado, però, la percezione giuridica non poteva né doveva essere scissa dall’elemento teologico, che permetteva di considerare lecito tale appello, solo se presentato »secondo le debite maniere« (136).

D’altronde l’opera di Terzi appare strettamente collegata al corpus documentario su cui si basa e procede l’indagine di Dall’Olio: 26 citazioni – rinvenute presso l’archivio vescovile di Bergamo e datate tra il 1514 e dopo il 1574 – che terminologicamente si riferiscono alla pratica concreta della citazione »nella valle di Giosafat«, e la cui preziosa edizione in appendice (con un valido sistema di critica testuale e documentaria) è testimonianza di un lavoro di studio approfondito e minuzioso (Appendice I, 165–220).

Attraverso un percorso che dichiaratamente prende le mosse dai vasti affreschi storico-giuridici di Berman (Law and Revolution, 1983) e Prodi (Una |storia della giustizia, 2000), Dall’Olio si riallaccia al fortunato filone dei rapporti tra concretezza giuridica e coscienza umana (Prosperi, Tribunali della coscienza, 1996; Brambilla, Alle origini del Sant’Ufficio, 2000), terminando per ricondurre efficacemente le proprie analisi entro due versanti storiografici strettamente interdipendenti: da un lato il complesso panorama giudiziario del tardo medioevo e della prima età moderna, venutosi a formare a partire dalla stretta simbiosi di religione e diritto all’ombra del papato medievale; dall’altro il vasto campo delle superstizioni, combattute dalle autorità civili ed ecclesiastiche, tra l’orizzonte postridentino e quello protestante.

Collocando l’indagine nel vasto campo del ricorso a Dio, quale giudice supremo, la pratica studiata in questo libro si richiama ad un luogo geografico preciso, la valle di Giosafat, situata presso Gerusalemme e indicata nel libro di Gioele (4, 1–2) come luogo in cui sarebbe avvenuto il giudizio delle nazioni contrapposte a Israele, poi trasformato dal paradigma cristiano in scenario del giudizio universale.

L’obiettivo dell’autore è chiaramente quello di esaminare tale pratica nella prospettiva permessa dalle fonti bergamasche, in quanto atti giudiziari intesi dall’autorità vescovile come pratica superstiziosa da estirpare. Tali documenti – scritti maggioritariamente in lingua latina (solo due sono redatti in lingua volgare) – rispecchiano una certa omogeneità di formule giuridiche, fonti scritturistiche e caratteri diplomatici, intrinseci ed estrinseci, che permettono una precisa identificazione sociale di coloro che se ne servivano, come soluzione per contese economiche o di proprietà (cap. I, 19–61). In definitiva si trattava – secondo le parole stesse dell’autore – di una pratica attestata documentariamente, la quale offriva »alle numerose persone che se ne servirono, uno strumento di persuasione nei confronti degli avversari contro i quali non si aveva la possibilità di combattere legalmente« (60).

Ad ogni modo, ciò appare come la punta di un iceberg, una di quelle tracce documentarie, sopravvissute alla dispersione del tempo, che invitano lo studioso a ricostruire un quadro più ampio, relazionato con citazioni al tribunale divino, dove l’elemento della maledizione del morente (ad esempio le citazioni proferite dai condannati alla pena capitale) e la minaccia di morte contro il giudice ingiusto, ne collocano la percezione all’interno di »storie esemplari« e dal tragico finale. Tratte dalla vasta raccolta pubblicata da Siegfried Hardung (Die Vorladung, 1934), e proficuamente confrontate con quelli di Bergamo, tali storie appaiono andare ben oltre la società minuta e le conflittualità economiche che animavano la popolazione bergamasca (cap. III, 109–146). Esempi circoscritti al medioevo, che coinvolgevano sacerdoti, cavalieri, prelati e sovrani, in seguito ripresi da teologi – quale il citato Terzi – e giuristi, che definendo due fronti contrapposti, cattolico e protestante, permisero una più chiara percezione e definizione del ricorso alla valle di Giosafat (elenco in Appendice II, 221–222). Questo sarebbe stato strettamente connesso ad un processo di ampliamento della percezione dell’aldilà, con luoghi specifici e terminologicamente identificabili, come il Purgatorio o il Limbo. Secondo l’Autore, infatti, »la comparsa della valle di Giosafat negli appelli al tribunale di Dio soltanto alle soglie dell’età moderna […] sembra corrispondere all’esigenza di concretezza nelle cose della religione così tipica degli uomini del tardo medioevo e che successivamente venne respinto ai margini dai riformatori cattolici e protestanti« (114).

L’esempio della Bergamo cinquecentesca tende così a sfumarsi nell’ampliarsi del quadro cronologico, che dal medioevo approda alla prima età moderna, sulla traccia della tradizione scritturistica e giuridica, relativamente al giudizio di Dio (cap. II), che appare tracciare l’intera storia umana. Con la rielaborazione cristiana dei primi secoli – dove istituti giuridici come la ordalia, la maledizione e la scomunica (91–108) si sarebbero intrecciati alle distinte concezioni del giudizio divino, particolare ed universale (87–91), l’apparire nella prima età moderna delle citazioni in valle Iosaphat avrebbe permesso di traghettare gli archetipi di tale pratica, lungo i secoli dell’età moderna ed oltre, sino all’elaborazione Otto-Novecentesca di fiabe e racconti folclorici, in un »epilogo« (147–164), in cui vivi e morti popolano uno spazio indefinito, in perenne confronto ed equilibrio, secondo il suggestivo richiamo dei benandanti di Ginzburg (I benandanti, 1966).

In definitiva, tale percorso d’indagine, seguendo una efficace metodologia di connessione di fonti tipologicamente differenti (atti giudiziari, testi narrativi, trattatistica) permette all’Autore di collocare la diffusione degli appelli alla giustizia divina all’intera Europa, ma geograficamente confinando quelle specifiche »alla valle di Giosafat« a cavaliere dell’arco alpino, tra Nord Italia, Svizzera e Germa|nia meridionale, e tra i due ambiti confessionali, cattolico e protestante.

Quello propostoci con questo libro appare quindi un valido studio, che consente alla storiografia sulla giustizia e sulle superstizioni di avvalersi di uno sguardo originale, di un semplice tassello, ma ben documentato, che è in grado di gettare una luce rinnovata su di un vasto processo storico che, tra tardo medioevo ed età moderna, ridefinì i confini della giustizia, delle superstizioni e delle credenze popolari all’ombra dello scontro confessionale. Ma soprattutto, quello offertoci da Dall’Olio, è uno studio capace di interpretare l’eterna simbiosi di vita e morte, di storia terrena e aldilà, di archetipi ed eventi concreti, ben presenti nella dimensione religioso-giuridica, nelle sue interpretazioni e nelle sue applicazioni umane.

Notes

* Guido Dall’Olio, Nella valle di Giosafat. Giustizia di Dio e giustizia degli uomini nella prima età moderna, Roma: Carocci editore 2021, 254 p., ISBN 978-88-290-1140-7