Si usa ripetere che il neoliberalismo sia mera razionalità economica, in quanto tale votato a fare a meno dello Stato. Si evita così di cogliere il radicale mutamento di paradigma cui rinvia il nome: esplicito nell’evocare la tradizione liberale, effettivamente incline a limitare l’ingerenza dei pubblici poteri, ma a stimolare nel contempo anche e soprattutto un suo rinnovamento.
Eppure questa circostanza è chiaramente evocata nel momento in cui venne coniato il termine »neoliberalismo«, ovvero nel corso del celebre colloquio Walter Lippmann tenutosi a Parigi sul finire degli anni Trenta: quando si volle rifondare l’ordine economico oramai incapace di reggersi sulla mitica mano invisibile, destinata a produrre l’autofagia del mercato. Allora si invocò l’edificazione di uno »Stato forte e indipendente« cui attribuire compiti di »severa polizia del mercato«, per impedire la »disintegrazione« sociale cui preludeva il »rispetto delle regole puramente razionali del gioco della concorrenza«.1 E questo implicava evidentemente il riconoscimento che la razionalità economica non poteva da sola alimentare il libero incontro di domanda e offerta e dunque il funzionamento della concorrenza: occorreva la mano visibile rappresentata dai pubblici poteri, i quali avrebbero dovuto imporla e anzi impiegarla come strumento di direzione politica del comportamento dei consociati. Il tutto in una fase storica caratterizzata dalla dissoluzione degli imperi alla base di un contesto internazionale cui si era affidato il compito di preservare l’ordine proprietario.2
Il ruolo dello Stato nel sostegno dell’ordine economico neoliberale, pure ignorato nel nome di un consolidato fraintendimento circa il senso della locuzione »libero mercato«, non venne trascurato dagli ordoliberali: questi gli attribuirono anzi fin da subito il fondamentale compito di polverizzare il potere economico al fine di condannare gli individui a tenere i soli comportamenti descrivibili in termini di reazioni automatiche agli stimoli del mercato. Ciò nonostante sono numerosi coloro i quali tracciano una netta distinzione tra ordoliberalismo e neoliberalismo, sostenendo che il secondo, diversamente del primo, non ha abbandonato la credenza secondo cui i mercati hanno la capacità di autoregolarsi. Trascurando così la circostanza che non è dato stabilire in termini assoluti la quantità e qualità dell’intervento statale nell’ordine economico cui rinvia il neoliberalismo, essendo queste in funzione di ciò che di volta in volta si rende necessario al fine di rendere il capitalismo storicamente possibile.
Peraltro il neoliberalismo non innova rispetto alla tradizione solo con riferimento al ruolo dei pubblici poteri, bensì anche rispetto a una ulteriore caratteristica cui si dedica se possibile un’attenzione ancora minore: il suo rapporto con la morale. Su questo aspetto ha ora concentrato la sua attenzione l’ultimo libro di Jessica Whyte, professoressa di filosofia nell’Università australiana del Nuovo Galles del Sud.
La morale di cui parla il volume è quella riassunta nella filosofia dei diritti umani, che l’ortodossia neoliberale esalta nella misura in cui consentono di promuovere l’individualismo proprietario, e soprattutto di contrastare l’ingerenza dei pubblici poteri nell’ordine economico: ovviamente non quella destinata a promuovere attivamente il libero incontro di domanda e offerta, bensì quella volta a sostenere l’emancipazione contro il funzionamento della concorrenza. Il tutto opponendosi a un diverso modo di intendere i diritti umani: quello promosso dalle Nazioni unite nella Dichiarazione universale adottata alla conclusione del secondo conflitto mondiale sulla spinta di chi intendeva contrastare il neocolonialismo e promuovere l’equilibrio tra capitalismo e demo|crazia, anche ricorrendo a forme di redistribuzione della ricchezza alternative a quelle realizzate dal mercato.
Whyte documenta come fosse questo il senso dell’opposizione tra società civile e società politica alimentata dai neoliberali raccoltisi attorno alla nota Società Mont Pèlerin, fondata anch’essa alla conclusione della seconda guerra mondiale per dare corpo ai propositi manifestati nel corso del Colloquio Walter Lippmann. Il tutto supportato da una copiosa documentazione volta a illustrare l’approccio evoluzionista dei neoliberali, i quali reputavano che la promozione della parità e la redistribuzione fossero l’aspirazione di corpi politici votati alla regressione, laddove lo sviluppo coincideva con la promozione dei commerci in un contesto cosmopolita.
Proprio un contributo confezionato da Friedrich von Hayek ai tempi dell’incontro parigino anticipava simili propositi nel momento in cui stabiliva un nesso tra sovranità nazionale e conflitto: quello bellico ma anche quello redistributivo. Di qui l’invito alla creazione di una federazione interstatale, cui affidare il compito di realizzare la libera circolazione dei fattori produttivi, sul presupposto che solo abolendo le barriere economiche si sarebbero eliminate le occasioni di conflitto tra Stati nazionali. E solo così facendo si sarebbe spoliticizzato il mercato, ovvero impedito agli Stati di promuovere forme di emancipazione diverse da quelle cui prelude l’equazione che identifica l’inclusione sociale con l’inclusione nel mercato: »sarà difficile produrre persino le discipline concernenti i limiti al lavoro dei fanciulli o all’orario di lavoro«.3
Whyte offre numerosi riscontri del nesso tra neoliberalismo e moralità, o meglio tra il primo e la cultura dei diritti umani, pur nella limitata accezione di cui abbiamo detto. Di particolare interesse quelli relativi alla nascita di tre note organizzazioni non governative come Amnesty International, Human Rights Watch e Médecins sans Frontières, di cui si documenta l’oggettivo contributo alla diffusione di un clima culturale di favore per la diffusione del pensiero e delle pratiche neoliberali.
Si intuisce a questo punto che il volume non rileva esclusivamente come mera riflessione storico filosofica sul passato, ovvero che costituisce un importante contributo al dibattito politico attuale, se non altro perché offre uno sfondo culturalmente ricco per affrontare questioni particolarmente spinose. Si pensi a titolo esemplificativo al dibattito, a dire il vero non recentissimo, sulla centralità delle lotte per il riconoscimento, ovvero per l’identità e la differenza, rispetto a quelle per la redistribuzione.4 Si pensi poi alla sua attuale rivisitazione alla luce di quanto appare una rinuncia da parte delle forze politiche tradizionalmente impegnate sul fronte dei diritti sociali a rivendicarli, anche e soprattutto perché inconciliabili con tensioni neoliberali oramai divenute il loro orizzonte ideale. Magari accompagnando il tutto con una inedita enfasi sul tema dei diritti civili legati al riconoscimento, che rispetto a quelle tensioni è innocua, se non addirittura allineata, per i medesimi meccanismi descritti da Whyte con riferimento alle menzionate organizzazioni non governative.
Ha poi a che vedere con l’attualità politica, sebbene conosca una tradizione risalente,5 una diversa funzione che la morale ha assunto in combinazione con la diffusione del pensiero neoliberale. Si è detto che quest’ultimo guarda oltre la razionalità economica, perché così facendo contribuisce a neutralizzare il conflitto redistributivo prodotto dal funzionamento della concorrenza. Ebbene, ciò non chiama in causa la sola morale collegata all’individualismo proprietario, bensì anche quella destinata ad alimentare valori premoderni evocati ad arte per alimentare conflitti identitari, e consentire così alla modernità capitalista di prosperare. A dimostrazione che il neoliberalismo non solo richiede l’intervento dello Stato per potersi affermare, ma anche che l’ingerenza dei pubblici poteri non è di per sé fonte di conflitti, come la demonizzazione neoliberale della sovranità nazionale mira a far credere. In verità il conflitto è una prerogativa del mercato e più in generale di un |rapporto squilibrato tra democrazia e capitalismo, il cui recupero richiede inevitabilmente di riportare l’emancipazione al centro dell’orizzonte politico dei pubblici poteri. E con ciò di recuperare in chiave emancipatoria la dimensione nazionale in quanto arena politica entro cui sviluppare il conflitto redistributivo.6
Il volume di Whyte contribuisce a identificare le dinamiche che hanno finora impedito un simile risultato, e rappresenta pertanto un contributo importante nella direzione giusta.
* Jessica Whyte, The Morals of the Market. Human Rights and the Rise of Neoliberalism, London/New York: Verso Books 2019, 278 p., ISBN 978-1-78663-311-8
1 Alexander Rüstow (1938), in: Serge Audier, Le Colloque Walter Lippmann: Aux Origines du »Néo-Libéralisme«, Lormont 2012, 469 ss.
2 Quinn Slobodian, Globalists. The End of Empire and the Birth of Neoliberalism, Cambridge (MA)/London 2018.
3 Friedrich von Hayek, The Economic Conditions of Interstate Federalism, in: New Commonwealth Quarterly 5 (1939) 131–149.
4 Scontato il riferimento a Nancy Fraser, Axel Honneth, Umverteilung oder Anerkennung? Eine politisch-philosophische Kontroverse, Frankfurt am Main 2003.
5 Melinda Cooper, Family Values. Between Neoliberalism and the New Social Conservatism, Cambridge (MA)/London 2017.
6 Alessandro Somma, Sovranismi. Stato popolo e conflitto sociale, Roma 2018.